“LE VIGNE DI RABATT”

Racconto breve di Luigi Spiota.

Qualche tempo fa mi ero trovato a passare, dopo tanti anni dall’ultima volta che ci ero stato, nel paese dei miei nonni piemontesi, arroccato sulle ultime propaggini delle colline del Monferrato.

Era l’inizio del mese di novembre, le prime nebbie si addensavano nelle bassure, la vendemmia era ovunque ultimata, ma l’odore del mosto ancora aleggiava nelle strettoie e nei vicoli fra le case di pietra.

Avevo rivisto tanti amici d’infanzia ormai anche loro con i capelli grigi se non bianchi, insieme avevamo parlato degli anni in cui correvamo per gioco su e giù per gli stretti vicoli acciottolati del borgo, disturbando con i nostri schiamazzi la quiete delle vecchie case e mettendo in agitazione le oche e le galline che razzolavano sulle rispettive aie polverose, eccitando inutilmente i cani da guardia.

Avevamo ricordato i bagni nelle acque del Tanaro dove d’estate sguazzavamo imparando a nuotare, insieme alla pesca con il burcè e con la bilancia dalla rete quadrata, le feste che duravano da notte a giorno col bicchiere in mano a vendemmia ultimata…

Ma quando avevo rammentato i giochi fra i filari delle vigne, che ancora oggi pettinano tutta la collina, specialmente quelle di Gioanòla, di Fougòtt e di Rabàtt, le più vicine al paese, mi ero subito accorto di aver toccato un tasto sbagliato, un nervo scoperto. Gli amici avevano abbassato lo sguardo ed io avevo capito che il loro imbarazzato silenzio nascondeva la volontà di non contrariarmi con argomenti che non potevo sapere.

Carlotto aveva anticipato le mie domande: “Vedo che ti ricordi di Rabàtt e della sua bella casa in mezzo alle due vigne, le più belle del paese.”

“Perbacco, come potrei essermene dimenticato!”

“Hai voglia di far due passi per andare a rivederla?”

“Ma certo, andiamo.”

Beh, è meglio se vai da solo. Noi restiamo qui ad aspettarti”, ed aveva versato il vino per me dentro ad un bicchiere messo in disparte, in attesa del mio ritorno.

Pensando quale poteva essere il motivo di tale atteggiamento degli amici, avevo ripresa la salita verso la cima della collina, dove sapevo che avrei rivisto la chiesa parrocchiale ed il vetusto castello nobiliare. Circa a metà strada mi sarei trovato proprio davanti alla casa di Rabàtt, assisa fra le sue due belle vigne, una per lato, famose per la quantità e la qualità delle sue uve bianche. A fare un vino eccellente era compito di Rabàtt, lavorandole nelle botti di rovere che riempivano la cantina scavata nel tufo della collina.

In verità, il vero nome del vecchio amico era Ideale. Così aveva voluto suo padre Libertario, notissimo anarchico dell’inizio del secolo scorso, talmente acceso nelle sue convinzioni politiche da portare a spasso il suo cavallo, in occasione dell’anniversario del regicidio, con la gassa nera dell’anarchia annodata attorno agli attributi dell’ignaro animale. Ed il maresciallo dei carabinieri, in quel giorno, puntualmente lo attendeva sulla piazza del paese per notificargli la solita settimana di guardina da scontare nelle celle della caserma.

Proprio Libertario gli aveva lasciato in eredità anche un ferro vecchio di pistola a tamburo, detta volgarmente proprio rabàtt perché ha il serbatoio dei colpi che rotola, che ogni anarchico che si rispettasse non poteva non possedere, per poter difendere le sue convinzioni dagli assalti dei reazionari e che usava portare, regolarmente carica, nella tasca posteriore dei pantaloni durante i giorni di festa.

Nonostante un padre siffatto, Ideale era il ritratto della paciosità, della ricerca della concordia fra tutti i paesani, della buona tavola e delle ribotte periodiche che segnavano, durante l’anno, le feste comandate e tutte le altre meno rinomate ma sempre attese con impazienza, preparate con così tanta cura che l’acquolina solo a parlarne a tratti faceva capolino fra le labbra.

Si era guadagnato quel soprannome fatidico in età già adulta, quando la responsabilità della conduzione delle vigne e la quadratura dei conti alla fine di ogni anno, sempre più difficili ed assillanti, gli tormentavano il sonno e gli procuravano incubi affannosi.

In preda a tali angosce notturne, si alzava da letto e, in mutande così come si trovava, fra lo spavento della moglie allibita, si lanciava di corsa fra i filari delle vigne con la pistola in pugno, per scacciare, secondo lui, i creditori che volevano portargliele via. Sembra che al primo sparo si riavesse di colpo e, rendendosi conto della situazione imbarazzante dato il suo abbigliamento, tornasse correndo come una lepre verso casa cercando di nascondere la pistola nelle tasche…che non trovava, sfogando il disappunto schiacciando il grilletto fino a quando finivano i colpi. Ma intanto tutto il paese era stato svegliato e, mandando improperi a lui ed ai suoi incubi, cercava di riprendere il sonno interrotto. Così Ideale si trasformò in Rabàtt, senza con ciò richiamare su di lui motivi di violenza o di cattive intenzioni, sideralmente lontane dalla sua vita.

Ero proprio contento di rivederlo, Rabàtt.

Chissà come sarà cambiato, invecchiando?” pensavo camminando. “Avrà ancora i baffoni a manubrio? Certamente sì, magari diventati bianchi.”

Così ricordando ero arrivato nei pressi della chiesa parrocchiale e, girato l’angolo e scollinando, avrei visto sorgere davanti a me la casa e le vigne.

Avevo infatti visto comparire per primo il tetto con il grande comignolo dotato di girandola, poi la chioma della quercia secolare che sorgeva sull’aia e che pareva messa a guardia ed a rinforzo della vecchia costruzione, eccola, ancora in buono stato anche se un poco scolorita dagli anni.

Le due vigne… ”Santo cielo! Ma…dove sono le vigne!?”

Ai lati della casa le vigne erano state cancellate da due enormi voragini nel fianco della collina: non più il verde distensivo dei filari con le viti ma il bianco abbagliante del tufo violentato dalle ruspe.

Ma cos’è successo!? Non è possibile!” gridavo in quella vastità dove era nato uno strano eco.

Quasi brancolando mi ero avvicinato all’ingresso del cantiere dove c’era il cartello esplicativo dei lavori.

Lì avevo capito tutto.

Alla sinistra della casa, circondata dall’abbaglio del tufo e derelitta nella sua isolatezza, sarebbe sorta una palazzina di tre piani con nove appartamenti, altrettanti boxes sparsi nel vasto giardino condominiale.

Alla destra una villa con piscina, due campi da tennis ed un vasto giardino. Avevo anche letto che il proprietario del terreno non era più Rabàtt.

Avevano vinto i creditori.

Chiarissimo a quel punto l’atteggiamento degli amici al bar.

E poi l’interrogativo angosciante: “Dov’è Rabàtt?”

Ero corso verso la casa, l’avevo visto scendere ed uscire dal cancello.

Santo cielo! Davanti a me c’era il fantasma di Rabàtt.

Smagrito in modo impressionante, curva la schiena e le spalle, in testa un cappellaccio di paglia dalla tesa sfilacciata, appeso al braccio sinistro un cestino da vendemmia vuoto, foderato all’interno con foglie di vite per addobbare gli splendidi grappoli d’uva contenuti disposti con antica sapienza.

Vedendomi si era fermato.

Rabàtt! Rabàtt!” l’avevo chiamato mentre mi avvicinavo.

Ma quando eravamo stati uno di fronte all’altro mi ero accorto che non mi vedeva, il suo sguardo fisso pareva attraversarmi e perdersi dietro di me.

Guardi, signore” mi aveva detto con voce irriconoscibile porgendomi il cesto vuoto. “Guardi che magnifica uva davano le mie due vigne. Guardi, guardi…”

(Luigi Spiota – Varazze, frazione di Cantalupo (SV), marzo 2024)

Questo articolo è stato pubblicato il 14 Mar 2024 alle 12:13 ed è archiviato nelle categorie - Racconti brevi, NEWS DA VARAZZE. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi andare in fondo e lasciare un commento. Attualmente il pinging non è permesso.

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