A VIVAGNA DU BARBA NICULIN

 

Racconto breve di Luigi Spiota

“Ho capìu, Cocò, ho capìu!” (Ho capito, Cocò, ho capito!).

Drìa (Andrea) mise giù i piedi dal letto, si stirò, sbadigliò in silenzio. Anche Nitta (Tonietta), dall’altro lato, si mosse sotto al lenzuolo, facendo frusciare il saccone di foglie di granturco.
Il gallo cantò di nuovo.

“E daghe! Canta pè i atri, òua!” (E dagli! Canta per gli altri, adesso!).

Si fregò gli occhi con il dorso delle mani, li spalancò nel buio tenue: la luce dell’alba forzava gli spiragli delle imposte. I piedi nudi riconobbero le fessure fra i mattoni del pavimento, freschi e gradevolmente rugosi. Brancolò fino alla porta. Gli alti gradini della ripida ed angusta scala lo obbligarono a toccare i muri con le mani, per appoggiarsi nella discesa al piano terreno, tutto buio.

In cucina tirò il catenaccio della porta che dava sull’aia, spalancò le imposte, socchiuse gli occhi alla luce e si lasciò invadere dall’aria fresca. Sentì il naso umido di Brick sfioragli le gambe e la coda battere contro le imposte. Si abbassò ad accarezzargli la schiena e la sua lingua gli lambì le dita.

Passandosi la mano sul mento e sulle guance raspose guardò il cielo: “Mìa che bèla giurnà! Dèmuse i-na bòtta, Brick. Nu sta lì a cùntate e pruxe!” (Guarda che bella giornata! Diamoci una botta, Brik. Non stare lì a contarti le pulci!).

Indugiò ancora qualche istante sulla porta. Guardò verso il campanile del paese, che si stagliava fra le case raggruppate sullo sperone montagnoso con dietro l’azzurro del mare e recitò un’Ave Maria:” … e proteggeteci tutti: i bambini e la mia Nitta, che ogni volta che li vedo riconosco il vostro tocco, ed anch’io. Un aiuto speciale per mio fratello Vittorio. Dateci una buona giornata. Amen!

Attraversò la cucina e si avvicinò al camino. I piedi gli ricordarono che la sera prima era passato Baccicin, con le scarpe ancora insabbiate, a portare alcuni cefali pescati davanti a punta Aspera.

Con la paletta scavò un piccolo cratere nel focolare spento e gli soffiò sopra: mille scintille brillarono nel grigio della cenere disturbata. Prese una manciata di foglie secche di canna e le appoggiò delicatamente sul cratere; sopra gli adagiò alcuni tralci di vite secchi. Modulò un lungo soffio per riaccendere le scintille e dalle foglie sorse un esile filo di fumo. Un altro soffio e zapp! una lingua di fuoco illuminò il focolare.
Un attimo, e con un leggero sfrigolio si alzò in una allegra fiammella, che illuminò le pareti nere del camino e la catena che vi pendeva al centro. I tralci diedero una fiamma più consistente, che avvolse pian piano i rami che Drìa aveva aggiunto. Man mano che saliva passando da un ramo all’altro, si espandeva, scoppiettava, illuminava e riscaldava ben oltre al focolare, piegando verso la gola del camino una voluta di fumo ondulata come … come i capelli di Nitta. Sentì un fremito percorrergli la spina dorsale.

“Nu stà a runsà, Brick! A culasiùn a faièmmu tutti insèmme. Fèrmu lì, e nun muntà in-se carègghe, che sun noève!” (Non spingere, Brik! La colazione la faremo tutti insieme. Fermo lì e non montare sulle sedie, che sono nuove!).

Appese la pentola con la madre del caffè al gancio del camino. Aggiunse ancora qualche pezzo di legna sul fuoco ormai avviato e gli posò accanto il pentolino del latte, dove di lì a poco si sarebbe formata la brace.

Eccola, Nitta, che si fregava gli occhi ancora un po’ abbagliati, coi piedi nudi che spuntavano da sotto al camicione, il cui fruscìo Drìa aveva appena percepito mentre scendeva la scala.
La strinse a sé. Sentì le sue braccia stringergli i fianchi. Quel fremito guizzò di nuovo lungo tutta la sua spina dorsale. Nitta lo guardò, poi senza dire nulla piegò la testa sulla sua spalla. “Stasera saremo stanchi morti” sussurrò Drìa. “Questo è l’unico momento quieto della giornata. Senti che silenzio!” Andarono nell’altra stanza, dove c’era un canapone che fungeva da letto di riserva. “Stiamo attenti, Drìa” sussurrò Nitta. “Ne abbiamo già tre e siamo ancora sotto ai trent’anni.”

Mentre facevano colazione seduti al tavolo e Brick faceva rotolare per la cucina la sua ciotola a suon di leccate, una gallina si affacciò sulla porta e sembrò intenzionata ad entrare. “Sciò! Sciò!” fece Nitta. “Stanno aspettando il mangiare. Appena finito il caffelatte vado a darne a tutti. Per il maiale ci sono ancora un poco di patate e di ghiande. Più tardi andrò a raccogliere l’erba per i conigli”.

Drìa posò la scodella vuota e si alzò risoluto: “Incumisiu da n’ta stalla” (Incomincio dalla stalla). “Aspetta. Vai prima a prendere due secchielli d’acqua alla fontana, così ne avrò a sufficienza per la mattinata”.

Rientrò dalla fontana con i due secchielli gocciolanti e li pose sotto al lavandino. Attraversò la stanza accanto ed aprì la porta della stalla. Appoggiati di lato c’erano gli zoccoli che usava soltanto lì. Li infilò e chiuse subito la porta alle sue spalle, altrimenti odore e mosche avrebbero infestata tutta la casa.

“Ehi, signurin-na, nu se salùe?” (Ehi, signorina, non si saluta?) e diede una pacca sul dorso della manza, che girò lentamente il testone e lasciò uscire un sonoro muggito a riempire tutta la stalla. Il vitellino schizzò in piedi e si lasciò accarezzare, attento e concentrato.
“E vuiatri duì desciève, nu fè finta de durmì!” disse al bue ed alla mucca coricati sulla paglia. “Intantu ancò nu cavèmmu. Che belèssa, eh?” (E voialtri due svegliatevi, non fate finta di dormire! Intanto oggi non ariamo. Che bellezza, eh?)

Girò attorno alle balle di paglia impilate che formavano un separé sul fondo della stalla, dove erano accucciate le caprette. “Tutti presenti, sergente, uomini e bestie!”
Spalancò la porta sull’aia, pigliò carriola e forcone ed incominciò a togliere lo strame dalle lettiere. Dalla stalla andava a rovesciarlo nella letamaia, al fondo dell’aia. Avanti e indietro, finché gli zoccoli non risuonarono sulla pavimentazione ripulita. Ricoprì le lettiere con paglia nuova, ripose carriola e forcone, si tolse gli zoccoli ed uscì sul cemento rugoso e fresco dell’aia non ancora riscaldato dal sole.

“Nitta!” alzò la voce verso la cucina. “Quando vuoi puoi venire a mungere le bestie”.

Aprì il cancelletto dell’orto ed andò ad innaffiare i pomodori e gli zucchini che stavano crescendo, riempiendo il secchio dalla cisterna che raccoglieva l’acqua piovana del tetto di casa. Le altre verdure potevano aspettare ancora.

“Hum! Domani mattina raccoglierò le ciliegie. Sono pronte per il mercato. Anche le amarene”. Fagioli e fagiolini crescevano bene, i ceci erano un poco radi, forse qualche seme non aveva preso. La selva verde delle patate aspettava una mano di verderame, fave e piselli erano già stati raccolti quasi tutti.

Alzò gli occhi all’azzurro del cielo. Il tiepido del sole incominciava appena a sentirsi, velato da sottili nuvole che ristagnavano sull’orizzonte, dove il mare sembrava più scuro. Le fasce coltivate, fino a lambire le prime case della città laggiù sulla costa, rilucevano animate da un intenso cinguettio di uccelli.

Rientrò in cucina. Nitta non aveva perso tempo. Sul tavolo erano posati due canestri pieni di piselli appena colti ed il cesto delle uova. Ne prese una, ancora tiepida del nido, la picchiettò sul bordo del tavolo, aprì il guscio ed aspirò tuorlo ed albume. Aprì la madia del pane e ne masticò un bel pezzo. “U l’è pecòu mangià a robba sensa pan!” (E’ peccato mangiare la pietanza senza pane) gli diceva ancora nelle orecchie la voce di sua mamma. Sbucciò due baccelli di piselli per sentire il dolce della verdura.

Da lontano, dalla città, giunse il suono lamentoso di una sirena. Guardò Brick, già pronto seduto sul primo gradino della scala, occhi ed orecchi attenti ed in attesa dell’ordine. “Vai! Sono le sette. Sali a svegliare quei dormiglioni.” Incominciò ad abbaiare che ancora doveva arrivare in cima alla scala. Poi, smorzate dai muri, arrivarono le esclamazioni dei bambini, miste a guaìti giocosi.

Rientrò Nitta con il secchiello pieno di latte di capra. Sentendo il fracasso al piano di sopra, alzò la voce nel cavo della scala: “Chìna, Brick! Còse te gìa pè a testa, za a mattìn fìtu! (Scendi, Brik! Cosa ti gira per la testa, già al mattino presto!) E anche voi, scendete che la colazione è quasi pronta.” Versò la giusta dose di latte nel pentolino e lo mise al fuoco.

Anticipati da un folto scalpiccio di piedini nudi, Giuseppe. Carluccio e Maddalena sbucarono dalla scala, il primo con le mutande all’inguine, il secondo con la canottiera arrotolata alle ascelle, la piccolina nuda e ridente sotto ai riccioloni.

“Io ho ancora sonno!” si lamentò Giuseppe, seguito a ruota da Carluccio: “Anch’io!” “Ma quale sonno, patisciusi. (delicatoni) Fuori c’è il sole che splende ed il papà è già andato alla fontana a prendere l’acqua fresca perché possiate lavarvi. Sù, sù, svelti, che viene tardi per la scuola.”

Drìa si ricordò che doveva preparare il verderame ed uscì per andare a pesarlo, insieme alla calce bianca. Posò il sacchetto vicino al cancelletto che dall’aia usciva sul sentiero, prese gli attrezzi per la giornata e provò che la macchina per spruzzare il verderame funzionasse bene.

Quando rientrò in cucina i bambini erano già pronti per andare a scuola, anche Maddalena, che pur non avendone ancora l’età, al mattino non voleva restare indietro agli altri. Stavano finendo il caffelatte e Carluccio questionava con la mamma: “La prossima volta non lo mangio più!”

“Va bene” accettò serenamente Nitta. “Vuol dire che salterai la colazione. Se credi che sia giusto buttare via una scodella di caffelatte soltanto perché starnutendo gli hai schizzato dentro un moccolo del naso, che abbiamo subito tolto col cucchiaio, vai pure avanti così. Sappi però che il tuo latte è quello: se ti u scènti, nu ghè atru!” (Se lo butti, non c’è altro).
“Ma se c’è il secchiello pieno!” “Quèllu nun è u toè (Quello non è il tuo). E non è da mangiare. Perché, vendendolo, in cambio avremo i soldi per comprare altre cose, per tutti noi, compreso te!”

“La mamma ha ragione, Carluccio” intervenne Drìa. “Anche se capisco che hai dovuto fare una cosa antipatica, anche se giusta. Facciamo così: per premio verrai a portarmi la cesta con il mangiare a mezzogiorno, quando uscirai da scuola. Io sarò a lavorare nelle fasce della vigna vicina al “Reinello”. Contento?”

“Oh sì, papà! Ma io voglio venire subito a lavorare con te! Non mi piace andare a scuola! Voglio venire con te a zappare la terra, a potare le piante, a spaccare la legna con la scure. Sono capace, sai? Lasciami venire! A scuola già ci và Giuseppe ed anche Maddalena ci andrà il prossimo anno. Loro scriveranno e faranno i conti anche per me. A me non piace.” Drìa si impensierì, come colto da un ricordo.

“Vieni, Carluccio, vieni a sederti qui sulle mie ginocchia. Ecco, così. Vedi, quando avevo la tua età le scuole comunali per quelli come me non c’erano ancora ed io consideravo sciocchi i figli dei benestanti del paese, che frequentavano a pagamento la scuola privata giù in città. Li prendevo in giro: “Mentre andate a chiudervi nella scuola, con i vostri goffi grembiuli neri e quel ridicolo fiocco bianco sotto alla gola, pettinati ed inamidati che non riuscite neanche a respirare, io vado a lavorare con mio padre e poi posso andare in giro per prati e boschi a cercare funghi, a raccogliere fiori e frutti, a giocare con il mio cane e magari, quando viene la sera, ho anche rimediato qualche soldo vendendo quello che ho raccolto. Venite con me, goffi che non siete altro!”

Quelli abbassavano la testa e proseguivano la loro strada, ingrugniti. Soltanto i più coraggiosi mi confessavano:” Taci, che ci verrei di corsa! Però poi stasera mio padre mi carica di botte.” Io ridevo, li schernivo e mi credevo più furbo di loro, perché, oltre a fare il lavoro che mi piaceva, avevo anche qualche soldo da spendere per i miei giochi. Sono passati quasi vent’anni da quei tempi. Loro, che erano i goffi, sono diventati operai provetti, impiegati, uno avvocato, alcuni lavorano in giacca e cravatta, comandano decine di uomini, abitano nelle case più belle del paese. Io, che ero il più furbo, sono rimasto contadino come mio padre e mio nonno. Intendiamoci: è il lavoro che non cambierei con nessun altro, ma se penso alla fatica che devo fare tutti i giorni ed ai pochi soldi che mi frutta … quanto ci stanno costando quei pochi soldi di allora e quella furberia di non volere andare a scuola!”.

Carluccio sembrava una statuina di gesso, non batteva neanche più le palpebre. “Adesso pensaci bene. Ne riparleremo fra qualche giorno e mi dirai cosa vorrai fare”. “Sì papà, va bene.” sussurrò Carluccio scivolando dalle sue ginocchia ed andando a prendere la sacca con i libri che Nitta gli porgeva: “Vai! Corri dietro a Giuseppe che si è già avviato, altrimenti farete tardi a scuola.”

Drìa si fasciò i piedi con due pezze di tela, li infilò in due vecchi scarponi e li battè per terra perché si adattassero bene all’interno delle calzature.

“Allora io vado, Nitta. Aspetterò Carluccio verso mezzogiorno. Se senti la trombetta di Masin sulla piazza, vendigli quelle pelli di coniglio e quei vetri rotti che sono sotto al fienile. Contratta bene sul prezzo: ricòrdite che stu chi u l’è bun da còxe! (ricordati che è un furbo di tre cotte!). Prima di cena sarò a casa. Ciao Nitta.”

“Ciao, Drìa. Ricordati di guardare il sole, ogni tanto.”
Drìa capì, spallò la macchina per il verderame, raccolse il sacchetto, si appoggiò sulla spalla i manici della zappa, del rastrello e della marra (Scure per spaccare legna o per tagliare radici sporgenti nel terreno da lavorare) ed aprì il cancelletto. Fischiò debolmente e Brick si slanciò per primo sul largo sentiero che saliva su per le fasce.
Passando nei pressi, scherzò col vicino di casa:” Pòssa a sàppa, Bertumè, che ‘ntantu u se vèdde lu stèssu che t’è un cuntadìn!” (Posa la zappa, Bartolomeo, che intanto si capisce lo stesso che sei un contadino!)

Il sentiero si inerpicò attraverso le fasce, puntando verso la cima del promontorio, che proteggeva alle spalle il paese dai venti freddi invernali. Salendo lentamente, Drìa costeggiava le fasce coltivate a fagioli, patate, cipolle, qualche filare di vite, ulivi a perdita d’occhio. Conosceva i proprietari di ciascuna fascia: Giuàn dei Rivà, Berto du Runcu, Beppe di Cannavella, si ricordava di quando con loro giocava, bambino, saltando come una capretta sù e giù per le fasce. Arrivato in cima, dove la vista spaziava sul verde della montagna e sull’azzurro del mare, si fermò un attimo, sudato, a prendere fiato. Anche il sole ormai incominciava a scaldare, oltre alla salita. Cambiò spalla d’appoggio agli attrezzi, fischiò a Brick che sentiva rovistare fra il fogliame sui lati e riprese il sentiero, che vedeva serpeggiare davanti a lui sul crinale.

Passò il primo dosso, dove col braccio salutò Celestin che già lavorava nelle fasce a metà costa. Proseguì per un buon tratto, con Brick che trotterellava al suo fianco, ora di qui ora di là, finché lo vide prendere la corsa per andare a fermarsi davanti alla capanna, costruita da suo bisnonno, che era al centro delle fasce da sempre proprietà della sua famiglia. Abbandonò il sentiero sul crinale e scese sul dorso montagnoso esposto a mezzogiorno, dove imboccò il breve tratto lastricato con pietre che conduceva alla capanna. Camminando, battè con forza i piedi sulle pietre per scrollare la polvere che gli scarponi avevano raccolto lungo il percorso.
“Ciao, caseta!” disse fra sé, vedendo la porticina, il muro macchiato di verderame, la vite che si appoggiava per salire sul pergolato che ombreggiava l’ingresso, il fico che spingeva di lato come se volesse sostenerla, le spesse foglie a fare da secondo tetto.

Posò gli attrezzi all’ombra, appoggiò la macchina sul bordo della vasca circolare di cemento dove preparava il verderame, spinse l’uscio ed entrò. Si tolse gli scarponi, infilò gli zoccoloni ed uscì sotto all’ombra del pergolato. Guardò davanti a lui il verde degli ulivi digradanti fin sulla costa, a scontrarsi con l’azzurro intenso del mare, le vele bianche che sembravano galleggiare nel vento, l’orizzonte immutabile sotto il cielo sereno. Il sole ormai alto nel cielo sembrava ricamato dal canto degli uccelli persi nell’azzurro.

“Questa è la mia terra, il mio posto” pensò. “Dove sono già passati i miei nonni e mio padre. In nessun altro posto mi sento come quando sono qui.” Si sedette sulla panca a lato della porta e restò lì, ad assaporare quel grande senso di pace e di appartenenza che ogni volta lo coglieva. Brick sembrò capire e gli si accoccolò davanti, appoggiando la testa sui suoi piedi.

Si riscosse e si alzò, girò intorno alla capanna ed andò sul retro, dove, contro al dorso della montagna, cresceva un gran cespuglio di sambuchi. Proprio lì sotto, all’ombra della capanna e delle spesse foglie, gorgogliava una minuta polla d’acqua argentea, che si infilava dentro un tubo lungo una spanna per andare a zampillare in un rigagnolo che si perdeva lungo le fasce. Staccò la tazza di rame che pendeva dal tubo e lasciò che si riempisse sotto allo zampillo. Fresca, deliziosa l’acqua della vivagna du barba Niculin (Sorgente d’acqua dello zio Nicolino), che l’aveva regolata molti anni prima. Un sapore che sembrava dentro di lui da sempre.

Riagganciò la tazza e rientrò nel rustico, si spogliò e si infilò una camiciola senza maniche, un paio di calzoni sdruciti e rattoppati, si calcò in testa un cappellaccio senza più forma e del colore di verderame. Prese gli attrezzi e scese alcune fasce coltivate a vite per raggiungere la più larga fra tutte, quella chiamata campetto.
Terra preziosa, fertile, calda, ricca di humus naturali, dove con l’aggiunta dell’acqua del vicino “riàn (Ruscello d’acqua corrente), crescevano dei borlotti che erano la fine del mondo: quando erano pronti per la raccolta, Drìa veniva a dormirci la notte, perché la tentazione di portarsi via un po’ di quella meraviglia adescava anche gli insospettabili.

Si portò all’inizio della fascia, piantò in terra una canna e ne segnò l’ombra con una pietra. Si sputò sulle mani e diede il primo colpo di zappa. Dopo cinque minuti aveva trovato il ritmo giusto. Dietro alle sue spalle la terra zappata sembrava respirare attraverso le zolle rovesciate; il suo colore rossiccio tornava a brillare sotto al sole.
Fatte le prime righe d’inizio, la zappa e le braccia andavo da sole, non avevano più bisogno di essere guidate dalla testa, che andava per conto suo …” … bisogna battere la falce con la mazzetta, è quasi ora del taglio del fieno … Giùllu non mi ha ancora restituita la mazza di legno con i cerchi di ferro: devo ricordagliela … il maestro dice che Giuseppe non riesce a fare i cerchi col gesso sulla lavagna … Carluccio punta i piedi per andare a

scuola. Guai! Deve andare a scuola, per trovare poi un lavoro diverso ed in città. Questa terra è appena sufficiente per la nostra famiglia: divisa per tre non servirebbe a nessuno. Significherebbe anche per lui dover andare in America, come sta facendo Dino dei Bagetti: con cinque figli non ci campa più sulla sua terra … l’America … mah! … andare a Genova, quaranta giorni di vapore … chissà come coltivano la terra laggiù … se la coltivano … soltanto a pensarci mi viene il groppo alla gola … “Ehi! Brick! Cosa scavi sotto a quell’ulivo! Non vedi che scopri le radici?” …. d’altra parte, anche quelli che stanno arrivando dal sud hanno salutato il loro paese, sono saliti sul treno per venire qui, a lavorare la terra degli altri … mah! … fin che ce la facciamo a tirare avanti, sperando che non succedano disgrazie … ahh, eccoti qua cattivo pensiero … oggi non eri ancora arrivato, eccoti qui. E adesso chi ti caccia via? … Vittorio, fratellone, fin che potremo ti aiuteremo, ma sei la nostra disperazione … ma cosa ti ha preso? … quando mai nella nostra famiglia c’è stato un ubriacone che sperpera quei quattro soldi del suo lavoro nel vino e nelle carte … i tuoi figli spesso senza mangiare, tua moglie che ha gli occhi soltanto per piangere … mezzo paese che è in credito con te … ogni volta che a fatica ti tappiamo un buco, subito ne apri un altro più grosso … mi hai già promesso, quante volte, Vittorio, che smetti, ma ormai non ti credo più … il problema è che non so cosa fare per aiutarti … ho già chiesto aiuto e consiglio a tutti quelli che conosco: il medico, il maestro dei miei figli, il parroco, Tomasino che lavora in ospedale in città.

Mi stanno a sentire, mi battono la mano sulla spalla, i più scuotono la testa, qualcuno mi dice di lasciar perdere che tanto è roba vecchia come il mondo e che mai nessuno l’ha risolta. Uno mi ha consigliato, pensa, di mandarti in galera, un altro mi ha proposto di prenderti a lavorare ed a vivere con me per insegnarti come si fa, come se nessuno mai te l’avesse insegnato: siamo cresciuti insieme nella stessa famiglia! … “Ciao Steva!” gridò all’amico che aveva fischiato e che agitava il braccio dal sentiero sul crinale” … prenderti con me a lavorare? Anche subito! Ma tu ci vieni? E soprattutto: chi ti paga?
Io non posso, così come siamo non avremmo da vivere e da mangiare per le nostre due famiglie … e allora? … ma perché invece non sei caduto dal fienile e non ti sei rotto una gamba? A quest’ora saresti già guarito e saremmo tutti contenti di averti aiutato. Ma dentro alla testa, Vittorio, chi ti guarisce dentro alla testa? Non lo sa neanche il medico, figurati io! …”

Piantò la zappa nella terra e con l’avambraccio si asciugò il sudore, strizzò gli occhi verso il sole alto nel cielo. Dietro a lui, la terra lavorata era a tre quarti della fascia. Andò a vedere la canna puntata in terra all’inizio del lavoro e dal confronto fra le due ombre capì che erano passate un paio d’ore. “Ancora un’oretta e arriverà Carluccio.” Pian piano risalì le fasce e ritornò sul retro della capanna. Bevve appena un sorso per rinfrescarsi la bocca, il resto lo versò nella ciotola per Brick, che aspettava scodinzolando. Si abbassò ad accarezzargli la schiena, Brick si drizzò sulle zampe posteriori e gli leccò il sudore sul viso.
“Beòtu tì, che nu ti ghè nìnte da pensà! Vegni, andèmmu a travagià”. (Beato te, che non hai niente da pensare! Vieni, andiamo a lavorare).

Stava terminando di rastrellare la fascia lavorata quando vide Brick drizzare gli orecchi e schizzare via, puntando dritto verso l’alto. “E’ arrivato Carluccio!” pensò. Raccolse gli attrezzi e si inerpicò verso la capanna.

“Ciao papà!” e gli saltò al collo. “Uh, come sei sudato!”
“Ho appena finito di lavorare. Ma anche tu sei sudato. Sei venuto di corsa?”
“Mi fai vedere cosa hai fatto stamattina?”
“Certo. Vieni, scendiamo nel campetto. Com’è andata la scuola?”
“Bene! La maestra mi ha interrogato sulle tabelline e mi ha detto che sono bravo.”
“Sei contento?”
“Sì, certo.”
“Anch’io sono contento di aver finito di lavorare tutta la fascia, anche se ho fatto certamente più fatica di te a scuola”.
“Sì, però a me piacerebbe di più venire a zappare con te.”
“Lo so, Carluccio, e anch’io sono contento che ti piaccia. Voglio soltanto che tu incominci a fare dei confronti.”

“Oggi pomeriggio cosa farai?”
“Lavorerò nei filari delle viti e spruzzerò il verderame.”
“Lo prepari sempre in quella vasca di cemento vicino alla capanna?
“Sempre quella, la stessa che già usava il nonno.”
“Lo sciogli sempre con la stessa dose di calce, come mi hai insegnato?”
“Sempre quella. Quando saranno terminate le scuole ti insegnerò anche a spruzzarlo”.
“Sìììì, papà! Mi metterò la macchina dietro alla schiena, come fai tu?”
“Proprio così”.
“Ah, che bello! Ma quando finirà la scuola?”
“Prestissimo, fra due settimane. Adesso però si è fatto tardi. Vieni, che ti do un bel bacione, così. E adesso vai subito a casa, a mangiare con la mamma che ti sta aspettando”.
“Va bene, papà, vado. Ma ricordati che mi hai promesso …”
“Tranquillo, me lo ricorderò. Ciao, Carluccio. Saluta la mamma, Giuseppe e Maddalena. Ci vediamo stasera.”
“Ciao, papà.”

Brick lo seguì per un pezzo lungo il sentiero e quando ritornò Drìa si stava lavando sommariamente, con l’acqua della bacinella riempita nel ruscello.
Dall’interno della capanna portò fuori un tavolino che sistemò davanti alla panca, sotto al pergolato. Si sedette e si appoggiò con la schiena al muro vicino alla porta.
Il sole di mezzogiorno batteva con tutto il suo vigore, l’orizzonte tremolava come un miraggio, la campagna risplendeva. Una bava d’aria a tratti faceva dondolare i tralci del pergolato. Da dietro alla capanna gli giungeva il mormorio della vivagna du barba Niculin …
“Non potrei mai allontanarmi da qui!” pensò. “Non esiste un altro posto al mondo per me, oltre a questo.”

Tolse il tovagliolo a quadri, annodato sopra al cestino che Carluccio aveva portato. Si illuminò quando vide le posate sistemate nel modo che solo lui e Nitta sapevano e che significavano … “Sei qui, Nitta, nei miei occhi, meravigliosa Nitta. Sei la mia vita e la mia fortuna … perché, Signore, così tanta fortuna a me e così poca a Vittorio? … forse vuoi farmi capire qualcosa con questa differenza? … cosa devo capire … aiutami a capire …”

La frittata era ancora tiepida, l’insalata di fagioli e di cipolle già condita, l’uovo sodo ancora da tagliare a spicchi e da aggiungere prima di mescolarla, un bel pezzo di pane bianco per lui che lavorava: a casa si mangiava quello scuro, più crusca che farina.
Tolse il tappo al fiaschetto del vino e riempì il bicchiere a metà. Mangiò lentamente, nel silenzio delle fasce, rotto soltanto dai sospiri dell’aria fra le foglie, dal canto degli uccelli.
Versò ancora mezzo bicchiere di vino e lo spinse sul tavolino, davanti a sé, lasciando che lo sguardo si perdesse nella pace dell’orizzonte, senza pensieri, soltanto un interrogativo che dolcemente lo incuriosiva: “Cosa devo capire, Signore, aiutami a capire …”
Bevve lentamente il vino.
Si allungò sulla panca sotto al pergolato ed appoggiò la testa su un fagotto. All’una lo avrebbe svegliato la sirena che suonava in città per i cantieri. Acciambellato sotto al tavolino Brick già dormiva, con respiri regolari, la punta della coda sul naso. Chiuse gli occhi e si addormentò.

Si svegliò con l’ululato della sirena. Si mise a sedere schermando con la mano gli occhi dalla luce vivida. Pochi istanti e fu in piedi. Finì il dito di vino che ancora c’era nel bicchiere e chiese a Brick che lo guardava con le orecchie dritte:
“Ma tì nu ti gha mai ninte da capì? Beòtu tì!” (Ma tu non hai mai niente da capire? Beato te!)

Versò il sacchetto della calce e del verderame nella poca acqua sul fondo della vasca di cemento, rimestò la poltiglia con un bastone. Raccolse due secchielli ed andò un paio di volte a riempirli d’acqua dello “rian”. Portò il livello dell’acqua nella vasca al segno inciso sulla parete interna e riprese a mescolare, finché il liquido non assunse un bel colore azzurro-verde.
Sempre dall’acqua dello “rian”, dov’era immerso, estrasse un fascio di rami sottili di salice, lo lasciò sgrondare un poco e se lo attaccò alla cintura. Col cappellaccio in testa, iniziò dal primo filare in alto della vigna degradando da uno all’altro, da una fascia all’altra, fino ad arrivare in fondo. Vite dopo vite, controllava che i tralci fossero ben distesi, legava ai fili con i salici quelli ancora liberi, diradava quelli che erano di troppo, toglieva i bastardini fra tralcio e foglia perché non sottraessero inutilmente risorse alla vite.

Man mano che proseguiva lasciava dietro di sé la vigna pettinata, i piccoli grappoli, da poco spuntati, esposti in pieno sole pur contornati dalle foglie.
Un paio di volte dovette risalire a prendere altri salici ed a dare una rimestata al verderame nella vasca. Durante l’ultima risalita si bloccò all’improvviso in mezzo al sentiero, come folgorato. Si tolse il cappellaccio e lo tirò a Brick, che allarmato corse a nascondersi dietro ad una vite.
“Ho capito, Brick! Ho capito! Grazie, Signore!”

Da quel momento sembrò più leggero, come spinto da un nuovo impulso, i gesti più decisi, il viso intento e sereno. Si fermò a guardare il sole dopo aver sistemata l’ultima vite dell’ultimo filare: incominciava a perdere un poco del suo splendore abbagliante, sembrava volesse avvisare che le ore più calde erano passate. “Giusto in tempo.” approvò Drìa.

Tornò alla vasca, riempì la macchina con il verderame diluito, se la caricò sulle spalle e ricominciò dal primo filare in alto. Qualche manigliata a vuoto per caricare la pompa, poi aprì il rubinetto ed incominciò a spruzzare le viti col verderame nebulizzato, che si fissava in goccioline verde-azzurre sulle foglie, ricoprendole. Ormai la misura la conosceva bene: dopo alcune ricariche della macchina, vuotata la vasca, esalò l’ultimo spruzzo sull’ultima vite.

Il sole si era decisamente appannato, splendeva ma non bruciava più. Rientrato nella capanna, si cambiò gli abiti da lavoro e calzò gli scarponi. Uscendo accostò la porta, raccolse gli attrezzi e lanciò un fischio a Brick. Diede un’occhiata circolare alla vigna, alla fascia lavorata e si sentì appagato. “Ciao caseta. Torno presto.”

Il fresco della sera, la leggera discesa del sentiero, la stanchezza della giornata gli tenevano sgombra la mente. Guardava le fasce, gli uliveti a perdita d’occhio, i campanili delle chiese della città giù sulla costa. Nell’ultimo tratto, quando la ripida discesa lo obbligò a trattenere l’andatura, si accorse della stanchezza della giornata da come le gambe tendevano a piegarsi ed a tremare sotto al passo. Quando sbucò sul sentiero vicino a casa, si incontrò con Gerò che stava sopraggiungendo dal paese. “Ciao, Drìa. Stèivu propriu passando da ca tò”. (Stavo proprio passando da casa tua).

“Andèmmu. Se ne fèmmu un gòttu bèlu frèscu.” (Andiamo. Ci beviamo un bicchiere di vino fresco). “Drìa, c’è una brutta notizia: Tomaso è caduto da un ulivo e c’è rimasto secco.” “Tomaso!!!”
“Ma sì. Propriu lè che u parèiva un gattu.” (Proprio lui che si arrampicava come un gatto).
“Tomaso! Non è possibile! Si sarà sentito male mentre saliva. Nu ghe pòssu crèdde! Oh, Madonna, e òua a Brigida e i figgioè?” (Non ci posso credere…e adesso Brigida e i figli?).
“Proprio di questo volevo parlarti. Volevo chiederti se ci stai a venire domani sera a casa di Benardo. Ghe saièmmu tutti quelli du pàise, pè daghe ‘na man”. (Ci saremo tutti quelli del paese, per dar loro una mano).

“Ma sicuro! Avete già pensato a qualcosa?”
“No. Ne parleremo tutti insieme. Ma ora scappo, vado ad avvisare gli altri.”
“Ciao Gerò, contate su di me. A dumàn sèia.” (A domani sera).
Guardò verso casa sua, ormai poco distante…. e pensò invece a quella di Tomaso.
“Tomaso Oh, Madonna!”

La stanchezza gli piombò addosso all’improvviso, la poca strada gli sembrò interminabile. Brick arrivò per primo ed al suo abbaiare risposero tutti e tre i bambini, uscendo dal cancelletto di casa e correndo incontro a Drìa. Nitta aveva lasciata una ramina piena d’acqua appesa al gancio del camino, sopra alla residua brace del fuoco di mezzogiorno, affinché si intiepidisse.
Drìa la versò nella bacinella e la portò fuori sull’aia, dove si insaponò e lavò per togliersi di dosso il sudore, la polvere ed il verderame della giornata. Infine si sedette sulla panca che Giuseppe gli aveva portato e mise i piedi a mollo.

“Aaahh! Sole, resta qui ancora un poco. Illumina questa lunga giornata che sta finendo. Sento la fatica allontanarsi un poco, stando qui. Ho ancora qualcosa da fare, prima di notte”.

“Drìa, bambini, a tavola. La cena è pronta.” Corsero tutti, compreso Brick.
La polenta con il latte, abbondante, riempì tutti, ma venne spolverato anche un pasticcio di verdura con uova e lardo che Nitta aveva sistemato a centro tavola, in una capace zuppiera. Il pane, scuro per tutti, saturò ogni residuo appetito.

“Questa sera c’è una bella sorpresa.” annunciò Nitta. “Giuseppe, pascolando le caprette oggi pomeriggio, ha trovato il tempo di riempire il suo berretto con le more di un gelso. Sono maturissime, pronte da mangiare. Le ho affogate in quel poco vino moscato che si era avanzato domenica scorsa, quando è passato Don Michele a benedire la nostra casa. Sentite che profumo! Ehi, un momento. Come si dice a Giuseppe?”

“Grazie, Giuseppe!”. tutti in coro, con il cucchiaino già pronto in mano. La caraffa vuota se l’assicurò Maddalena: “Com’è dolce, mamma! Com’è dolce! Sembra zucchero!” e si leccava con cura le dita una dopo l’altra, facendo schioccare la lingua, dopo aver infilata la manina ad intingere sul fondo.

“Sentite un po’, ho una proposta da farvi” esordì Drìa, toccando col piede quello di Nitta a segno di “lasciami dire che poi ne parliamo”. “Cosa ne pensate se lo zio Vittorio venisse a lavorare qui con noi?”

Lampi d’occhi a raggiera, silenzio profondo.

“Conoscete bene lo zio Vittorio” riprese Drìa. “E’ un buon ragazzone, molto intelligente, si sta bene in sua compagnia … quando non è bevuto.”
Risatine soffocate.
“Significa che le nostre giornate si riempirebbero di tante altre cose, certamente alcune buone ma anche di qualche contrasto”.

“Ma che lavoro farà qui con noi?” chiese Giuseppe.

“Ci aiuterà, perché oggi ho pensato che possiamo ampliare la nostra attività. Affitteremo le fasce che confinano con le nostre al Reinello e quelle della Costa, compresa la vigna e l’uliveto. Nella stalla abbiamo posto per altre due bestie ed altrettante in quella dello zio. Alleveremo anche qualche maiale in più. Lo zio potrà continuare a svolgere qui il lavoro di sellaio e di maniscalco che sa fare così bene, anche se non sono lavori continuativi. Insomma, ci divideremo sia il lavoro sia le risorse, per tutte e due le nostre famiglie, che continueranno a vivere ciascuna nella propria casa.”

“Eh, così lo zio non potrà più bere mentre lavora …” disse Giuseppe guardando fisso davanti a sé.
“Pensateci bene. Ne riparleremo fra qualche giorno e mi direte la vostra idea. Per stasera, visto che siamo tutti stanchi, è abbastanza così. Usciamo. Andiamo a prendere un poco di fresco prima di andare a dormire.”

Uscirono nel buio, ciascuno portandosi la sedia o lo sgabello.
In fondo all’aia, distante dalla luce che proveniva dalla porta della cucina, si sedettero: Drìa e Nitta sulle sedie accostate, Giuseppe e Carluccio sugli sgabelli, con le braccia appoggiate sulle gambe dei genitori, Maddalena in braccio alla mamma.

Nel buio quasi non si distinguevano i volti, si riconoscevano le voci, nessun bisbiglio o sussurro andava perduto.
Davanti a loro, lontanissime, baluginavano le luci della città, poche e tenui invece quelle del paese, che pure erano così vicine.

Nella quiete della notte si immersero i loro pensieri.
In alto nel cielo le stelle affascinavano gli occhi.
Una lama d’argento tagliò il cielo all’improvviso.
“Oh! Una stella cadente! Esprimiamo tutti un desiderio, perché si avvererà.” suggerì Nitta.

“Io vorrei studiare e diventare … ingegnere!” disse Giuseppe.

“Io invece vorrei lavorare con il papà” sospirò Carluccio. “Anche se ho già capito che dovrò finire almeno le scuole elementari.”
“Io vorrei due cucchiai di zucchero nel caffelatte del mattino” disse Maddalena.

“A me piacerebbe stare sempre qui, così come adesso” sospirò Nitta.

“Anch’io” disse Drìa. “Sentirvi tutti qui, contenti di stare insieme a casa nostra”.

Il fresco della sera, il buio complice, il silenzio avvolgente in breve ebbero il sopravvento sui bambini. Maddalena sembrò diventare di piombo in braccio a Nitta, Giuseppe e Carluccio appoggiarono la testa e si addormentarono sulle gambe di Drìa.

“Dòrman” (Dormono) sussurrò Nitta.
“Cume prìe!” (Come pietre!).

“Sono d’accordo per Vittorio, Ti avrei proposto anch’io qualcosa di simile. Non si può andare avanti così. E’ la scelta più oculata, anche se un po’ rischiosa per noi”.
“Proviamo e speriamo bene. Avrò bisogno del tuo aiuto”.

“E per Tomaso?”

“Sai, poco fa, nel silenzio, mi sembrava di sentire il suono del suo mandolino. Te lo ricordi?”
“Come se fosse qui, adesso. Nessuno sapeva suonarlo come lui!”

“…Vittorio…Tomaso…sai, Nitta, c’è un significato nella diversità fra loro e noi. L’ho capita oggi pomeriggio mentre lavoravo nella vigna. Chi ha la fortuna di poter fare, deve fare anche per chi non può o non può più. Altrimenti non ci sarebbe giustizia in quella diversità.”

Nitta non rispose, ma Drìa sentì la sua mano sulla spalla.

Chissà quanto restarono così, in silenzio.

“Drìa, ti stai addormentando”.

Si alzarono. Drìa si caricò i bambini uno per spalla, Nitta prese in braccio Maddalena e rientrarono in casa. Portarono i bambini nella loro stanza e li misero a letto. Dormivano così sodo che non si svegliarono neanche quando tolsero loro i vestiti.

Nitta scese in cucina a chiudere la porta ed a coprire di cenere la brace del camino.

Drìa le aveva detto: “Vieni presto: ti aspetto”. Ma quando entrò in camera era già crollato.

Con delicatezza gli rimboccò il lenzuolo e lo salutò con una carezza sul viso:
“Dormi, Drìa. Riposati. Sei la mia vita, la mia fortuna.”

(Luigi Spiota – Varazze, frazione di Cantalupo (SV), marzo 2024)

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 Mar 2024 alle 20:16 ed è archiviato nelle categorie - Racconti brevi, Attualità, NEWS DA VARAZZE. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Attualmente sia i commenti sia i ping sono chiusi.

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